In un articolo appena pubblicato su Nature Communications, cui hanno collaborato per l’Università degli Studi dell’Aquila Giovanni Pitari e Daniele Visioni (membro CETEMPS), si è analizzato il collegamento tra il recupero dell’ozono stratosferico su Europa, Asia e Nord America e lo spostamento del Vortice Polare Artico, un fenomeno di bassa pressione che, a causa del cambiamento climatico (in particolare, a causa dello scioglimento dei ghiacci nei mari del nord), nelle ultime decadi si sta spostando dal Polo sempre più verso il continente eurasiatico.
L’ozono (O3) è un composto in forma gassosa che si trova in quantità abbondanti nella stratosfera terrestre (oltre i 10-15 km di altezza). Questa molecola ha la fondamentale caratteristica di assorbire in parte la radiazione UV proveniente dal sole. Questo tipo di radiazione ha effetti negativi sull’organismo (pelle e occhi), oltre ad essere legato all’insorgenza di alcuni tipi di tumore. D’altro canto, in quantità moderate, è fondamentale per la produzione di vitamina D nell’uomo.
Lo strato di ozono stratosferico fu scoperto agli inizi del ‘900, e solo nel corso del secolo ci si accorse del suo posto nel delicato equilibrio che permette la vita sulla Terra. Negli anni ’70, però, ci si accorse che, nell’emisfero Sud, lo strato di ozono in alcune stagioni diminuiva in modo importante. Nel giro di alcuni anni, la comunità scientifica collegò questa diminuzione ai composti CFC (Clorofluorocarburi) prodotti dall’uomo e, a quel tempo, ampiamente usati da tutta la popolazione, soprattutto come refrigeranti. Questi composti, a vita lunga, favoriscono le reazioni di distruzione dell’ozono stratosferico e ne comportano la scomparsa.
Stipulati nel 1978, i protocolli di Montreal sono l’esempio migliore di cooperazione internazionale tra stati, e tra la comunità scientifica e i governi, nell’ambito dell’influenza antropica sul clima. A 10 anni dalla scoperta degli effetti deleteri dei CFC sull’ozono stratosferico, il mondo si convinse che fosse necessario bandire quei composti del tutto, e così fece. I tempi per il recupero (“recovery”) dell’ozono stratosferico sono lunghi, dato che i CFC presenti in atmosfera hanno tempi di dimezzamento dell’ordine di molte decine di anni.
Tutt’ora la comunità scientifica continua a monitorare la concentrazione di ozono stratosferico nella nostra atmosfera, data la sua estrema importanza per la salute. In particolare, le domande a cui si cerca di dare risposta sono: quanto tempo ci vorrà prima che l’ozono stratosferico ritorni a livelli pre-industriali? Questa recovery avverrà in maniera uniforme? Il riscaldamento del pianeta (global warming) come influsce in questa recovery?
L’Università dell’Aquila e il CETEMPS ha partecipato e sta partecipando, tramite il progetto CCMI (Chemistry-Climate Models Intercomparison Project), con il suo modello climatico (ULAQ-CCM), a vari studi internazionali che cercano di rispondere a queste domande.
Nell’articolo intitolato “Stratospheric ozone loss over the Eurasian continent induced by the polar vortex shift”, utilizzando dati misurati e da modello, si è osservato come durante il mese di Febbraio, nel periodo 1989-2012, lo spostamento del vortice polare è collegato ad un aumento nel livello di radiazione UV a terra, causati dal trasporto di aria più povera di ozono (e più ricca di cloro) dal polo Nord verso le medie latitudini, provocando una riduzione nelle concentrazioni di ozono in quota.
Per quanto rigurda il futuro, tutti i modelli utilizzati hanno indicato concordemente che, nei prossimi decenni, lo spostamento del vortice polare a causa del riscaldamento globale produrrà nell’emisfero nord un rallentamento nel processo di recovery dell’ozono stratosferico con consequenze sulla salute della popolazione.
Autore dell’articolo: Daniele Visioni